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Pagina:Ciceruacchio e Don Pirlone.djvu/312

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capitolo quinto 305

nella situazione europea: era il segnale della rivoluzione generale di tutto il grande partito liberale contro il vecchio edificio feudale, chiesastico e reazionario, con tanta fatica ricostruito dai vincitori del grande Napoleone, nel trattato di Vienna del 1815. E della indiscutibile influenza di quel fatto sulle cose italiane non tennero e non vollero mai tener conto - e anche oggi non vogliono - gli storici dottrinari e subiettivi: eppure la verità impone allo storico imparziale ed obiettivo di notare che quel fatto gettò la costernazione e lo sgomento nel campo dei reazionari italiani, e costrinse i principi, anche i più reluttanti — come Pio IX — ad affrettare quelle concessioni a cui, senza quel fatto, non si sarebbero mai adattati; che quel fatto turbò e sconcertò i disegni e le speranze del partito moderato nei vari Stati italiani; che quel fatto inanimi e rese fiducioso ed audace il partito repubblicano.

Mentre la Commissione dei sette cardinali e dei tre monsignori, nominata dal Papa per istudiare il disegno di Costituzione da darsi ai popoli dello Stato romano, lavorava - e Dio solo sa con qual cuore e con qual lena - attorno a quel progetto; mentre Vincenzo Gioberti scriveva da Parigi lettere confortatrici e piene di entusiasmo a Pier Silvestro Leopardi, a Roberto D’Azeglio, al Montanelli, al Massari - lettere pubblicate dai giornali per eccitare gl’Italiani a concordia fra di loro e coi loro principi, e li dissuadeva «dall’imitare stoltamente la Francia, perchè tanto sarebbe il parteggiare per la repubblica, quanto il rompere la lega italiana e precipitare i nostri principi in grembo all’Austria» e mentre il Mazzini costituiva il 5 marzo a Parigi «l’associazione nazionale italiana» con intendimenti repubblicani ed unitari — e perché e come egli avrebbe potuto, unitario e repubblicano, costituirne una con intendimenti monarchici e federativi? — il Consiglio comunale di Roma, non eletto dal voto popolare, ma dalla sola volontà del Pontefice, il Consiglio comunale di Roma, composto nella sua grandissima maggioranza di uomini a Pio IX e come principe e come Pontefice devotissimi, deliberava all’unanimità un indirizzo al Papa con cui gli chiedeva «un Governo a forma rappresentativa, e perfettamente convenevole alla presente civiltà, e durabile quanto non pur la vita, ma il nome e la