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bito un grazioso parasole, dipinto con grandi fogliami di bellissimi colori azzurri e verdi.

Pipì prese l’ombrellino, l’aprì e cominciò a girare intorno alla stanza, dando continuamente delle lunghissime occhiate al canestro delle nespole giapponesi.

― Amico mio, ― disse allora Alfredo ― se indugi un altro poco, farai notte senza avvedertene, e ti toccherà a viaggiare al buio.

― Io di giorno non so camminare ― rispose Pipi. ― O non sarebbe meglio che partissi questa sera dopo cena?

― Padronissimo di fare come credi meglio.

E nel dir così, Alfredo lasciò balenare in pelle in pelle un risolino canzonatorio, che pareva volesse dise: «Caro il mi’ ghiottone! Ho bell’e capito qual è il tuo debole: lascia fare a me, che ti domerò io!»

Quando fu l’ora della cena, Pipì senza nemmeno aspettare di essere invitato, andò a sedere alla tavola dove era seduto Alfredo: ma questi, pigliando un tono di voce serio e padronale, gli disse:

― Che cosa fate costì?

― Vengo a cena anch’io.

― Le persone che vengono alla mia tavola, le voglio veder vestite decentemente. Andate subito a mettervi la giubba.

― Io.... con la giubba.... non so mangiare. La giubba non me la metto.

― Allora ritiratevi là, in fondo alla sala, e contentatevi di assistere alla mia cena. ―

Quando Pipì si accorse che Alfredo diceva sul serio, si dètte a piangere e a strillare: e piangendo e strillando scappò dalla stanza: ma poco dopo tornò.