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SONETTO LXVI
Quasi rotonda palla accesa intorno
Di mille stelle veggio, e un Sol che splende
Fra lor con tal virtù ch’ognor le accende;
Non come il nostro che le spegne il giorno.
Or quando fia che l’alma in quel soggiorno
Segua il pensier, che tanto in su s’extende
Che spesso quel che ’n Ciel piglia non rende
A la memoria poi nel suo ritorno?
Ond’io dipingo in carte una fosca ombra
Per quel Sol vivo, e de le cose eterne
Parlo fra noi con voci roche e frali.
Quant’Ei si vuol talor mostrar discerne
La mente, e sol quand’Ei le presta l’ali
Vola, e mentre le nebbie apre e disgombra.
SONETTO LXVII
Talor l’umana mente alzata a volo
Con l’ali de la speme e de la fede,
Mercé di Lui, che ’l fa, sotto si vede
L’aere e la terra e l’uno e l’altro polo.
Poi, sormontando, e questo e quello stuolo
Degli angeli abbandona, perché crede
Esser di Dio figliuola e vera erede;
Onde vola a parlarLi a solo a solo.
Egli pietoso non risguarda il merto,
Né l’indegna natura, e solo scorge
L’amor ch’a tanto ardir l’accende e sprona,
Tal ch’i secreti Suoi nel lato aperto
Le mostra, e la piagata man le porge
Soavemente, e poi seco ragiona.