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SONETTO CLII
Se ’l commun Padre, or del Suo Cielo avaro,
M’asconde voi, miei lumi, e lui, mio sole,
L’Altro immortai, cui l’alma adora e cole,
Scorge ella più che mai lucente e chiaro,
E del Suo vivo raggio, ardendo, imparo
Che non quel dolce che qui il senso vole
è buon cibo per noi, ma quel che sòie
Esser al gusto più noioso e amaro;
Perché de l’alta luce oggi un bel lampo
Venne lieto, e sgombrò quante al mio core
Erano folte nebbie avolte intorno,
E, mentre ei splende, io di desire avampo
D’aver pur notte agli occhi altrui di fore
Per veder dentro in me lucido giorno.
SONETTO CLIII
Quanto è più vile il nostro ingordo frale
Senso terren de la ragion umana
Tanto ella poi riman bassa lontana
Da lo spirto divin, che sempre sale.
Non han principio, fin, né mezzo equale;
La ragion par col senso infermo sana
Ma con lo spirto eterno è un’ombra vana,
Ché con quel lume il suo poter non vale.
Ben potè ella abbracciar la breve terra,
Signoreggiando il senso, ma non mira
Il superbo disio, ch’entro allor serra,
E, quando giunge a quanto il mondo aspira,
Truova pace di fuor ma dentro guerra,
Onde del proprio error seco s’adira.