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INFERNO. — Canto XXVII. Verso 22 a 34 431

Perch’io sia giunto forse alquanto tardo,
     Non t’incresca restare a parlar meco:
     Vedi che non increscie a me, ed ardo.
Se tu pur mo in questo mondo cieco 25
     Caduto se’ di quella dolce terra
     Latina, onde mia colpa tutta reco;
Dimmi se i Romagnuoli han pace, o guerra;
     Ch’io fui de’ monti là intra Urbino
     E il giogo di che Tever si disserra. 30
Io era ingiuso ancora attento e chino,
     Quando il mio Duca mi tentò di costa,
     Dicendo: Parla tu, questi è Latino.
Ed io ch’avea già pronta la risposta ,




role, perch’io sia giunto a te tardo, cioè dopo Ulixes, io ti priego che a te non rincresca di ristare a parlarmi alquanto; e persuadendo dice: poiché a me che sono in tanta pena non rincresce, a te non dee tal ristata rincrescere e noiare.

V. 25. Se tu pur mo, or avisò lo Conte che udendo parlar Virgilio ello fosse uno peccatore nuovo che fosse venuto ad essere suo compagno per simiglievole peccato, e fosse latino; e però dicea: se tu pur mo caduto sei di quella dolce regione latina, io ti priego che tu mi dichi novelle delli uomini della provincia di Romagna, in che stato elli sono; ed acciò, (tacite dice), che tu non ti meravigli, io fui uomo di montagna tra Urbino e lo luogo ove nasce lo Tevero, lo quale è il fiume che vae a Roma, e questa montagna è Montefeltro. Sichè altro non vuol dire se non: dimmi come stanno li romagnoli, ch’io sono lo conte da Montefeltro.

31. Or drizzando quelle parole lo Conte a Virgilio, il quale elli aveva udito parlare, sicome nel testo appare, Virgilio commise a Dante ch’elli parlasse, imperquello ch’elli era latino; che non bisognava che Virgilio parlasse elli, perchè fosse greco come bisognòe a Ulixes.

34. Ed io ch’avea, qui, come appare nel testo, li risponde; in la qual risposta si palesa della malvagia condizione de’ romagnoli, li quali mai non sono senza guerra, senza rissa, nè senza travaglia; e però che alcuna signorìa li tenga in quiete, elli non stanno che dentro dalli loro cuori elli non pensino e trattino altro che trattati e inganni l’uno dell’altro; e maggiormente si truova tale vizio in li suoi grandi, li quali quando li occorra un bel tratto, a sua voglia sanno pigliare le signorie a tal mo’ ch’elli ne diventano tiranni; ed è tanta la sollecitudine di quelli che studiano in ciò lo peccato di quelli, ch’elli hanno, studiato che spesso si cambiano le volte.

Circa la quale domanda non è da maravigliare per quello che è detto nel X capitolo, che l’anime dannate non sanno del presente adovramento, che facciano li uomini nel mondo.