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CANTO XXXIII. 401 sulla fame più a lungo, avrebbe, tra gli allri inconvenienti, snaturato 11 soggetto in maniera da fare imaginare verisimile quella schifosa interpretazione che all'ultimo verso fu data, cioè che il padre mori- bonilo avesse forza e cuore di lacerare co' denti le carni de' propriilì- gliuoli e pascerne il ventre suo. Non è già che la parte corporea sia qui trasandata tutta ; senoncbè oltre alla ragione delta, del !ion troppo arreslarvisi , due altre consi- derazioni, o piuttosto sentimenti, ne distolsero forse Dante : che se Un nellf cose piacenti la minuziosità è intollerabile , molto più é nello orribili cose; massime laddove il canto abbonda di orribilità: e che non solo nell'arte, ma ne' comuni coiloquii più possente del parlare prolisso assai volte è la reticenza. Già il dannato che mette i denti nella nuca dell'altro dannalo, come il pane si mangia per fame, gli rode il teschio e l'altre cose, dispone a lìgurarsi la rabbia della fame che deve avere nella carcere il conte patita. E il sogno delle cagne magre, anticipando con l'augurio il tormento^ lo prolunga all'anima del leggitore. Questo è veramente artifizio da poeta: trasportare l'a- nima nel futuro, e la realita nel campo dell' ideale, che nella sua va- stità indeterminata fa e le cose allegre e le tetre apparire più grandi. Anche qui dalla regione corporea nella morale è levato il dolore, ma da quella sulla corporea ri[)ioniba più grave , e i morsi della fame vengono dal misero sentili in sogno innanzi ancora eh' egli in elfelto li senta. E perché il sogno non è solamente l'apprensione ma la me- moria del paiimento, di qui si fa luogo a imaginare che, prim'ancora che sentissero l'uscio inchiodato, il cibo scarso fosse a' carcerati saggio della mone. Epperù i lìgliuuli anch'essi sognano, e fra il sogno pian- gono e chiedono pane. Al vedere il padre mordersi le mani, non ima- ginorebbero cerio eli' e' lo facesse per necessita di mangiare , se non sentissero in se medesimi quella necessità crudelmente. E così dagl'in- dizii e dagli elTeiti argomentasi lo sialo loro più pienamente forse che non farebbe l'espressa parola. Due di stanno tulli muti, non solo per la rinchinsa ambascia alla quale ogni sfogo sarebbe |ioco, non solo per non si angosciare a vicenda , ma perché la fame li ha mezzo sepolti in quel suo letargo eh' è tra Pobbiivione e II senlimenio, tra la morte e la \ila. E di qui cresce potenza all'esclamazione ahi (Hira terra t ; così come 1' interroL'azione che succede al iiO'^no di die pianger snoWi', ci costringe a pensare tutto quello che s'annunziava al cuore del reo, cioè anco ^'li spasimi delle sue viscere proprie. Il verso che si protende come corpo presso a spegnersi negli ullimi mo\imenti, Gaddo mi si gitto disteso appiedi, non è certamenie un framnìcnio di trattato ana- tomico, ma dice qualcosa anco a' sensi. Come In mi vedi, Vid' io cascar li tre, dipinge anco gli atti che pr^^cedono al cadere loro; e ha doppio signilicalo: come vedi me qui, cosi io in quel buio con gli occhi olTu- scati dal digiuno li vidi, nel fiero lume del dolore mio e loro, cascare e morire: come tu vedi me qui disperato, fremente di dolore iracondo, nell'atto di sfogarlo sul teschio dell'arcivescovo, cosi disperalo ero io allora e sparuto e livido e compreso della morte mia e della loro. j\la, veduta ch'egli ebbe la line de' suoi diletti, allora gli occhi gli s' inte- nebrano nel languore e nel dolore; e, divenuto cieco, egU brancola sopra i quattro cadaveri. Queslo pare a me più che ritrarre, in parole impoieiiiì eccedenti quella convenienza che il bello ricliiede anco nelle imagini spaventose, riirarro lo squarcio che nelle viscere di lui faceva la fame. Digiuno la dice egli da uHimo, quasi per attenuare l'idea e far che sovr' essa giganteggi il sentimento dei dolore d'entro. Ma dopo quest'ultima voce digiuno, per darle in atto quel pieno si- gnificato ch'e'j)areva voler nascondere, riprende il teschio co' denti e lo rode a modo di cane : quel teschio a' cui capelli egli aveva . per Dante. Inferììo. 313