Pagina:Commedia - Paradiso (Imola).djvu/417

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canto

XXIII. 407

Che Polinnìa con le suore fero Del latte br dolcissimo piè pingue, Per aiutarmi, al millesino dcl vero Non sì verria, cantando il santo riso, E quanto il santo aspetto facea mero. E così, flgurando il Paradiso, Convien saltare il sacrato poema, Come chi trova suo cammin reciso. Ma chi pensasse il ponderoso tema, E l’omero mortal che se ne carca, Noi biasmerebbe, se sotto esso trema. 66 Noii è pareggio da picciola barca Quel che fendendo va l’ardua prora, Nt da nocchier ch’ a sè inedesmo parca. () Perché la faccia mia sì t’ innamora, Che tu non Li rivolgi al bel giardino, Clic sotto i raggi dì Cristo s’ infiora? 72 Quivi è la rosa, in che il Verbo Divino Carne si fece: quivi son li gigli, Al cui odor s’apprese il buon cammino. 7ì Così Beatrice: e io, che a’suoi consigli Tutto era pronto, ancora mi rendei Alla battaglia dei debili cigli. 78 Come a raggio di sol, che puro mci Per fratta nube, già prato dì fiori Vider coperto d’ ombra gli occhi miei; SI Vidi io così più turpe dì splendori Fulgurati di su da raggi ardenti, Senza veder principio di fulgori. O benigna virtù clic sì li impreuti, Su t’esaltasti per largirini loco