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142 per l'egeo

Vidi su una porta del castello un fregio di maschere teatrali del migliore stile greco, e presso il platano d’Ippocrate, su una piazzetta per terra un pezzo di fregio delicatissimo a festoni e puttini. Non si può esprimere il sentimento che suscitano queste ultime reliquie del suo splendore antico nell’isola che fu riscoperta dalla nostra guerra in pieno Mediterraneo. Essa era come le rovine sepolte.

Kos ha ora, la città circa 3000, tutta l’isola circa 10 000 abitanti, la maggior parte greci e poche migliaia turchi. Ha cinque villaggi, esporta agrumi, uva, bestiame, frutta. È come Rodi e le altre Sporadi il paradiso delle frutta. Quattro milioni di chilogrammi d’uva all’anno, mi fu assicurato da quei del paese, si esportano da Kos in Alessandria d’Egitto. Girato il capo Fuca l’isola appare coltivata quanto prima appariva nuda. La coltivazione sale dalla spiaggia sin verso le cime taglienti e dentate dei monti. È verde e florido a perdita d’occhio. Ma non ci sono strade. Sotto il regime turco s’era pensato a farne una da un capo all’altro dell’isola, rotabile, e s’era anche tracciata tutta e per un terzo condotta a compimento, e poi s’era lasciata in abbandono. Dirò di più: quei di Kos non conoscono ruota. Non conoscono veicolo, all’infuori dell’animale col basto. Non carri, non carrette, non cariole: il che