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230 | così parlò zarathustra - parte quarta |
Quanto sarà remota tale lontananza? E che m’importa?
Non di meno la cosa è sicura per me: con entrambi i piedi io sto saldo su questo fondo.
— Su fondo eterno, su duro granito primitivo, su questa più alta e più aspra delle montagne originarie, alla quale tutti i venti convergono come aduno spartivento, chiedendo: dove? e donde? e per dove?
Adesso ridi, ridi, mia serena e salutare malizia! Dall’alto dei monti fa scrosciare il tuo riso beffardo e scintillante! Adesca col tuo scintillio i più belli tra i pesci umani!
E ciò che in tutti i mari a me appartiene, il mio Io in tutte le cose — ciò pescami fuori, ciò traggi in alto sino a me: ecco quel che attendo, io, il più operoso di tutti i pescatori.
Fuori, fuori, o mio amo! Dentro, ben addentro, esca della mia felicità! Esprimi il più dolce dei tuoi succhi, o miei del mio cuore! Scendi, amo mio, nel seno d’ogni nera tristezza!
Fuori, fuori, occhio mio! O quanti mari intorno a me, quanto umano avvenire tramontante! E sopra me quale rosea calma!
Quale silenzio senza nubi!».
Il grido di «soccorso».
Il domani Zarathustra sedeva tuttavia sul suo sasso dinanzi alla caverna, e i suoi animali erravano lontano in cerca di cibo, — e anche di nuovo miele: poichè Zarathustra aveva sperperata e prodigata la sua provvista sino all’ultimo granellino. Ed ecco che mentre se ne stava così seduto, disegnando con una bacchetta nella sabbia l’ombra della propria figura, e meditando, — invero! non intorno a sè o alla sua ombra — a un tratto sobbalzò sgomentato: giacchè vicino alla propria ombra egli ne scorse un’altra. E mentre guardava a torno sorgendo in piedi, vide presso di sè l’indovino, lo stesso che un giorno aveva pranzato alla sua mensa, l’apostolo della grande stanchezza, il quale insegnava: «Tutto è uguale; nulla deve esser tenuto in conto; il mondo è senza significato; la scienza