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lxiv - storia e costituzione di roma 143

talmente temperata, che né lo chiude ai medi né lo apre ai minimi. Tu ben vedi che i censori hanno grandissimo potere.

I consoli ritengon sempre il diritto di presiedere al senato, e la cura della pace, della guerra e di tutto ciò che possa mettere in grave pericolo la libertá o la sicurezza dello Stato; e ne’ casi difficilissimi, onde, per troppo numerosa e lunga deliberazione, né si tradisca il segreto né si perda l’opportunitá del momento, il senato o dá loro nuovo e piú ampio potere, incaricandoli di provvedere perché la repubblica non soffra verun detrimento1, o loro impone di nominare un magistrato straordinario, che chiamasi «dittatore» ed innanzi al quale cessano tutti gli altri magistrati e tacciono tutte le leggi. Prima i consoli amministravano essi stessi la giustizia: ora a questa presiedono i pretori, i quali hanno il secondo onore tra tutti gli altri magistrati dopo i consoli e spesso in loro assenza ne adempiono le veci. Alla pubblica annona, alle feste, agli edifizi pubblici, alle pubbliche strade soprastan gli edili. E questi sono que’ cangiamenti che negli ordini, a parer mio, il solo tempo ha prodotti.

Ma l’altro cangiamento, e piú grande; quel cangiamento, che non il solo numero de’ magistrati, ma la stessa natura degli ordini ha alterata; quello, quanto egli è, tutto si deve ai tribuni. Essi incominciarono dal chieder leggi scritte; non giá perché fino a quel tempo Roma fosse stata senza leggi, ma perché, antiche ed insufficienti ai bisogni sempre nuovi di una cittá che di giorno in giorno cresceva in ricchezza e civiltá, rendevano indispensabile una continua interpretazione; e questa era tutta in mano de’ patrizi, i quali sotto nome d’interpreti eran veri legislatori. Quindi è che essi alla richiesta de’ tribuni acremente si opposero, prevedendo quanto sarebbe umiliata l’oligarchia, se leggi chiare, inesorabili soprastassero egualmente ai padri ed alla plebe. Pure i padri, dell’antico potere legislativo, han saputo ritener non piccola parte, rivestendo l’uso, che delle leggi si fa ne’ giudizi, di formole solenni, inalterabili, sante, difficili a conoscersi senza un lungo studio, il quale suppone sempre ben curata

  1. «Provideant consules ne quid respublica detrimenti capiat»