Pagina:Cuore (1889).djvu/164

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152 febbraio

egli mi disse. - Son tutti ragazzi che m’han dato i loro ritratti, da più di vent’anni in qua. Dei buoni ragazzi, son le mie memorie quelle. Quando morirò, l’ultima occhiata la darò lì, a tutti quei monelli, fra cui ho passata la vita. Mi darai il ritratto tu pure, non è vero, quando avrai finito le elementari? Poi prese un’arancia sul tavolino da notte e me la mise in mano. - Non ho altro da darti, - disse, - è un regalo da malato. - Io lo guardavo e avevo il cuor triste, non so perché. - Bada eh... - riprese a dire - io spero di cavarmela; ma se non guarissi più... vedi di fortificarti nell’aritmetica, che è il tuo debole; fa’ uno sforzo! non si tratta che d’un primo sforzo perché, alle volte, non è mancanza di attitudine, è un preconcetto, è come chi dicesse, una fissazione. - Ma intanto respirava forte, si vedeva che soffriva. - Ho una febbraccia, - sospirò, - son mezz’andato. Mi raccomando, dunque. Battere sull’aritmetica, sui problemi. Non riesce alla prima? Si riposa un po’ e poi si ritenta. Non riesce ancora? Un altro po’ di riposo e poi daccapo. E avanti, ma tranquillamente, senza affannarsi, senza montarsi la testa. Va. Saluta la mamma. E non rifar più le scale, ci rivedremo alla scuola. E se non ci rivedremo, ricordati qualche volta del tuo maestro di terza, che t’ha voluto bene. - A quelle parole mi venne da piangere. - China la testa, - egli mi disse. Io chinai la testa sul capezzale; egli mi baciò sui capelli. Poi mi disse: - Va’, - e voltò il viso verso il muro. E io volai giù per le scale perché avevo bisogno d’abbracciar mia madre.