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104 | Cuore infermo |
— Quale imprudenza! — mormorò Collemagno, ridiventato buono come un bambino. — Ci terrete sempre in pena.
— A che serve? È inutile stare in pena per me. Già nulla si muterà per questo.
— Lo so — disse lui, e chinò il capo.
Camminavano tutti tre in fila, ella in mezzo, col suo passo molle, quasi stanco; la persona flessuosa si muoveva con una grazia malaticcia ed incantevole, con quel profumo che ondeggiava nell’aria, come lei passava. Oramai non s’incontrava più nessuno. Si faceva scuro. Tacevano tutti tre, dominati dall’influenza dell’ora, o del proprio pensiero; pareva che ognuno camminasse da solo, dimenticando di essere in compagnia. Arrivarono alla porta grande della Villa, quella della piazza Vittoria. Davanti al marciapiedi era ferma la carrozza della D’Aragona.
— Signor duca — disse lei, salutandolo col capo, senza porgergli la mano.
— A rivederci, Collemagno — aggiunse, dandogli due dita della mano sinistra.
E salì senza l’aiuto di alcuno, con una sveltezza singolare in quel corpo così abbattuto. Collemagno, nell’oscurità, sorrideva lievemente. Lalla dovette sentire quel sorriso. Mentre il servo richiudeva il piccolo sportello, ella disse:
— Signor duca, non mi dimenticherà?
E gli tese la mano, lasciandola nella sua, chinandosi un poco per guardarlo, con le labbra che si agitavano ancora, quasi mormorassero parole sommesse. Egli tremò un momento, come se gli si scuotessero tutti i nervi.
— Avrò presto l’onore di venire ad ossequiarla, signora contessa.