Pagina:Cuore infermo.djvu/106

Da Wikisource.
Vai alla navigazione Vai alla ricerca
106 Cuore infermo

— ....Non so — fece l’altro, imitandolo.

Dopo pochi minuti erano davanti al portone del palazzo Sangiorgio, in via Monte di Dio. Si dettero la mano.

— Dopo tutto, io credo di aver indovinato la malignità di oggi.

— E quale era?

— Tu forse, Marcello — disse Collemagno, rivelando la sua tortura.

— No — ribattè l’altro, seriamente.

— Tutto è inutile, tutto — ripetè malinconicamente Paolo: — addio, caro mio.

— Addio, amico mio.

E mentre Paolo si allontanava, curvando la forte ed elegante persona sotto il travaglio del suo cuore, Marcello rientrando in casa, sentiva aggravarglisi più forte, più crudele il cruccio dell’esistenza.


II.


Ora nel palazzo Sangiorgio era una grande quiete, una quiete che parea durasse da anni, che parea dovesse durare per un tempo indefinito. Nelle prime tre settimane, dopo l’arrivo inatteso dei padroni, tutto era andato sossopra; vi era un viavai continuo di falegnami, tappezzieri, pittori, un lavorìo incessante di stanza in stanza, di salone in salone, un affaccendarsi, uno sbattere di porte, un’attività fervidissima. Il duca Marcello sembrava non ne sapesse o non ne volesse saper nulla; era per lo più fuori di casa, e quando ritornava, dava appena un’occhiata, di sfuggita, a quello che vi si faceva.