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130 Cuore infermo


Sul foglietto, profumato fortemente, erano scritte queste parole di un carattere ignoto ma che egli indovinò:

«Venite dunque, sono ammalata.»


La cameriera lo condusse silenziosamente, attraverso tutto l’appartamento deserto, richiudendo senza rumore le porte dietro sè. Marcello non osò chiederle nulla, compreso ad un tratto da un senso di sgomento. Ella gli aperse un ultimo uscio di un salotto, dove non era mai stato, lo introdusse nella camera e lo lasciò, sempre senza pronunziare una parola.

Le imposte chiuse avevano creata lì dentro una notte artificiale; ma una lampada era accesa, moderata da un paralume azzurro. Nel fondo della camera il piccolo letto si perdeva in una nuvola bianca, dalla lieve ombratura azzurrina. Ma l’ammalata giaceva sulla bassa dormeuse. Ella giaceva lungo-distesa, col capo perduto nei cuscini, il collo un po’ sollevato, vestita di un abito di lana bianco, metà del corpo nascosto da un manto di velluto nero. Chiusi gli occhi, le nari terree, la bocca semiaperta, le mani inerti e abbandonate lungo la persona; tutte le linee del volto diminuite, quasi corrose dal male.

— È morta — pensò Marcello.

E fu sopraffatto dal terrore di quel corpo immobile, vestito di bianco come pel funerale, di quel lugubre manto nero. Si chinò verso lei, fascinato, per vederla meglio. Ella respirava. Un sospiro di sollievo uscì dal suo petto, quasi si liberasse da un incubo.

— Lalla — mormorò sottovoce.

Ella non rispose; ma agitò una mano, come se dicesse che non poteva parlare e che lo ascoltava.