Pagina:Cuore infermo.djvu/213

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Parte quinta 213

tanto una parolina. I due gruppi si spostarono: i giovanotti si accostarono alle signore; i duettini cominciavano. Le signorine avevano chiamato Caranni e lo stuzzicavano per sapere che avesse inventato di bello per i cotillons futuri.

— La duchesa Sangiorgio — annunziò il servo.

Amalia si scosse, sorrise, si alzò rapidamente per andarle incontro sino alla porta del salone. Beatrice entrò insieme con lei. Il capitolo dei benvenuta, bentornata non fu esaurito così presto. Ella rimase un momento in piedi, circondata dalle signore, rispondendo ad ognuna col sorriso, con parole gentili, con quei graziosi inchini del capo, che ella aveva per pregio speciale. Quando sedette accanto ad Amalia, avendo dall’altra parte l’Aldemoresco, parve fosse un po’ stanca.

— Sei stanca? — le chiese Fanny.

— Ho salito le scale in fretta, e voi non mi lasciate respirare.

Ma presto si rimise. Le signore giudicavano mentalmente il suo abito di stoffa oliva a gilet pompadour, azzurro e rosa, ma insieme severo e gaio nel medesimo tempo. Ella rimaneva sorridente, un po’ pallida in volto. La trovavano alquanto cangiata. In meglio certo. Parevano più oscuri, più profondi gli occhi, una volta dallo sguardo grigio e chiaro. Amalia ora la sopraccaricava di domande, agitata, ripetendo due volte la stessa cosa. Cercava d’isolarsi con Beatrice, dimenticando le altre visite del suo circolo. Ma Beatrice voleva invece l’opposto, e la conversazione da capo divenne generale. Si discorreva di matrimonii. Francesco Filomarino aveva ricevuto lettere da Parigi: Gerardo Mariconda sposava una Talleyrand-Périgord.

— Si sa nulla della sposa? — chiesero due o tre dame.