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226 Cuore infermo

si ridestava, riprendeva prestamente il lavoro come un’operaia in ritardo; ma per poco. Finiva per gettarlo via, si prendeva la testa fra le mani per decidersi a qualche cosa, s’alzava, andava nelle anticamere, interrogava la Giovannina, parlava col maggiordomo, fingendo anche a sè stessa un grande amore per le cose di casa. Ma era così distratta, così irrequieta, faceva domande così insolite, che talvolta s’accorgeva che i servi la fissavano, con una certa meraviglia. Di sicuro doveva essere molto cangiata. No, Beatrice non aveva potuto ripigliare le sue belle abitudini. Molte di esse erano abbandonate per sempre; alcune degeneravano in forme novelle; sorgevano fenomeni singolari; la sua esistenza, turbata da cima a fondo, fluttuava, indecisa, errante, combattuta dai vecchi ricordi del passato, dalle strane aspirazioni del presente.



Di sicuro molto cangiata. Un giorno, per l’onomastico di un’amica, fece ordinare ad un fioraio un mazzo di rose the e di vainiglia. Glielo portarono al palazzo, nel suo salotto. Quando il servo che lo aveva deposto sopra una mensola si fu allontanato, quando ella fu certa di essere sola, si accostò ai fiori e li fiutò lungamente. L’olezzo delicato delle rose gialline e quello soavemente pungente della vainiglia le piacquero; quelle onde profumate che ella aspirava, le rinfrescavano la testa. Sentiva quel profumo sulle labbra, sulla pelle, nei capelli; si chinava sui fiori perchè le toccassero lievemente le guance, le carezzassero la fronte, si strisciava un poco contro essi, irritata e consolata da quelle piccole punture. Un momento, strappò coi denti un gambo di vainiglia e lo masticò: era amaro, lo sputò