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242 Cuore infermo

cappellino ungherese, coi piedini da bambola calzati con stivaletti bruno-dorati. Si guardò nella psiche, di fronte, di profilo, di tre quarti, provò un sorriso. Si trovò molto seducente; ma non rassomigliava punto ad una donna che va ad un convegno colpevole: pareva piuttosto una fanciulla che ha deciso di conquistare il collegiale, suo cugino. Pensò che il contrasto sarebbe stato più piccante; poi il suo gruppo di margheritine bianche le doveva dare un’aria misteriosa e drammatica. Quando fu vestita vide che era ancora presto. Ma non poteva star ferma in casa; aveva sgridato tre volte la Serafina; aveva lacerato un guanto, ne aveva infilato un altro paio. Come passavano i minuti, cresceva il suo stato nervoso...

Così era capitata a Capodimonte. Aveva lasciato alla porta piccola del parco la carrozza da nolo, quasi certa di ritrovarne qualcuna al ritorno: si era internata nei viali, camminando piano per calmarsi, non osando ancora andare dalla parte del cascinale svizzero. Cominciava a pensare che la sua era un’imprudenza. Avrebbe voluto ritornare alla porta a richiamare il cocchiere, per andarsene. Chissà! Forse Marcello non verrebbe. Ma subito la sua vanità di donna prese il disopra: sarebbe stata una inciviltà, una sciocchezza non venire. Marcello non poteva essere un imbecille ed uno scortese cavaliere. Allora fece tra sè un compromesso: sarebbe andata al viale del convegno, avrebbe atteso sino alle tre e un minuto; se alcuno non fosse comparso, sarebbe andata via subito, senza voltarsi indietro. Era la volontà della sorte che si sarebbe manifestata così.

Fatta questa transazione puerile con la sua debolezza, si avviò. Giunta a capo del viale della Cascina, guardò il suo piccolo oriuolo: mancava un quarto d’ora alle tre. Aveva il suo tempo. Rialzò un poco le fogliuzze