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Pagina:D'Annunzio - Notturno.djvu/132

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120 notturno


Il campo di Gonàrs è squallido come un calvario spianato. «L’Aquila romana» è sola, in disparte, lontana dalla riga dei velivoli leggeri, a due braccia dal canaletto evitato per miracolo nella discesa funerea. Le sue doppie ali traverse, fra la prua e i timoni, formano la croce cruenta.

È nel piano ed è sopra un culmine. Appare come una struttura solida di legni di tele di metalli, ed è una sostanza spirituale. Sembra esanime, ed è tutta tesa dall’anima come il veliero è gonfio di fortuna. Sembra muta; e nell’una e nell’altra cellula, tra cèntina e cèntina, tra motore e motore, tra fusoliera e fusoliera, per mezzo ai fili d’acciaio, nella carlinga piena di congegni, lungo il bordo levigato, il silenzio è un silenzio che a chi l’ascolta parla una parola indimenticabile. È il testamento del sangue.

Non v’è parte che non sia aspersa.