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che nodo ancor vegeto da cui possa uscire un germoglio.

I piedi sono laggiù, lontani, estranei, come quelli d’un mutilato per congelazione, simili a quelli che vedemmo appaiati negli ospedaletti alpini quando il ferro del chirurgo lavorava senza riposo.

Ora mi sembra che la mia volontà non possa trasmettere il movimento ai tendini dei pollici congiunti.


L’infermiera dice che tutti i rosai del giardino hanno fogliato e messo le bocce.

La pioggia lava la verzura tenera.

I giacinti s’inchinano a terra, qualche gambo si rompe, e l’umore fila.

Mi pare d’averlo fra dito e dito, appiccicaticcio come un filo di vischio fresco.

Dopo il supplizio di quella sera, l’imagine di quel fiore si svolge stranamente nella mia sensibilità.

La pioggia porta via il terriccio