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X ANNOTAZIONE


Nel medesimo giorno, tre anni dopo, forse alla medesima ora, lo abbandonava la fortuna. E in un luogo di memoria eroica svanita, in un luogo senza genio, s’abbatteva il suo sprezzante eroismo.

Di méta in méta, di morte in morte. E più oltre.


Mentre in tristezza io trascrivevo l’esempio del contadino innominato che entra nel guado e s’inginocchia in mezzo alla correntìa e sacrificandosi incide il suo sacrifizio nell’acqua, dentro la basilica di Aquileia una madre dolorosa sceglieva tra le undici bare innominate quella che sta per discendere nel monumento.

Nella mia imaginazione la vedevo simile a quella Maria della cripta che con le divine mani scarne regge il dolore di tutte le creature acceso nel suo capo come in una lampada sempiterna. Quanti secoli di sventura nostra, quanti secoli italiani di patimento e di pazienza, quanti secoli d’iniquità e di servaggio in lei piangevano?

E perché il feretro del Grande Offeso non era ammantato dalla bandiera del Timavo, da quella che io custodisco, da quella che fu chiamata «il sudario del sacrifizio» e «il labaro del fante», da quella che fu distesa sopra le casse dei miei morti di Fiume allineate in terra?

Prima v’era rimasta effigiata l’imagine di un solo eroe morto; ma ora v’è l’imagine di tutti i morti, ché tutti quelli che sono morti per la Patria e nella Patria si somigliano come Giovanni Randaccio nella sua arca di macigno somiglia al fante ignoto raccolto fra quattro assi.

Anzi egli oggi si toglie dal capo il suo cerchio di gloria e lo rinunzia al senzanome. Così, quando viveva in terra, per umiltà verso i mille e mille eroi ignorati volle un giorno togliersi i segni azzurri dal petto; e io l’imitai.

I miei stanotte li ho dati alla fiamma.


O Aquileia, il tuo antiste, quell’uomo puro che il Signore pose alla tua guardia, non vide mia madre scendere sopra i tuoi cipressi in aspetto di colomba color di neve?

Me lo disse. Era il 15 maggio 1917.