Pagina:D'Azeglio - Ettore Fieramosca o la disfida di Barletta, 1856.djvu/106

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capitolo viii. 103

stretto dalla circostanza a decidere pel sì o pel no, s’attenne provvisoriamente al secondo partito, dicendo fra sè stesso, penseremo poi.

— Son venuto tardi stasera, disse egli, salendo la scala, ma abbiamo avuto un gran da fare oggi, e vi sono gran novità.

— Novità! — rispose Ginevra, buone o cattive?

— Buone: e coll’ajuto di Dio fra qualche giorno saranno anche migliori.

Giunsero sulla spianata avanti la chiesa: all’estremo ciglio ove lo scoglio cade a piombo nel mare v’era un muricciuolo per riparo, alcuni cipressi in circolo, in mezzo ai quali era piantata una croce di legno, e tutt’intorno molti rozzi sedili.

Adagiatisi ivi ambedue al raggio argenteo della luna, che già vinceva la luce purpurea del crepuscolo, Fieramosca prese a favellare.

— Ginevra mia, rallegrati; oggi è stato giorno di gloria per l’Italia e per noi, e se Dio non nega favore alla giustizia, sarà principio di gloria maggiore. Ma ora fa mestieri adoprar fortezza: oggi devi mostrarti tale da servir di esempio alle donne italiane.

— Parla, — rispose la giovane guardandolo fisso, come per studiare la sua fisonomia, e leggervi anticipatamente qual prova s’aspettasse da lei: — son donna, ma ho cuore.

— Lo so, Ginevra, e dubiterei che il sole si levasse domani prima di dubitar di te... e le narrò la sfida, esponendone minutamente l’origine, la gita al campo francese, il ritorno, il combattimento che si preparava: e quanto animose fossero le sue parole, quanto accese d’amor di patria e di gloria, quanto la presenza di Ginevra rendesse più vivo quel fuoco, lo sanno quei lettori che hanno sentito il cuore batter più rapido, parlando di operar generoso a prò della patria con donna capace di ugual sentimento.