Pagina:D'Azeglio - Ettore Fieramosca o la disfida di Barletta, 1856.djvu/123

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lenzuolo, era diventato uomo di questo mondo, e, conoscendo che non era tempo da perdere, s’era arrampicato su pel campanile, e, seduto su una trave attenendosi alle pietre che sporgevano dal muro, stava aspettando il destro di scampare, e dallo scuro non essendo veduto poteva benissimo osservare ciò che accadeva in chiesa.

Intanto il capo de’ malandrini, giovane che poteva aver circa diciassette anni, ma di terribile aspetto, robusto, con una cicatrice che gli fendeva la fronte quant’era larga, e gli faceva il sopracciglio più alto d’un dito, menò un calcio sotto le reni al podestà per risolverlo ad alzarsi, mandando quel muglio di chi non ha gli organi della parola. Non vi poteva esser un rimedio più pronto per guarirlo dallo sbalordimento; s’alzò senza aspettare la seconda dose, e tratto in un angolo con D. Michele, furon legati e guardati da alcuni di costoro, mentre gli altri prendevano e contavan l’oro al lume della lanterna. Ciò fatto, lo posero in una borsa di pelle che il capo aveva alla cintola ed usciron tutti, messisi in mezzo i prigioni, ai quali, con quei cortesi modi che usa simil gente, dissero di camminare spediti se non volevano assaggiar le punte delle loro daghe.

Dopo aver fatto mezzo miglio su per l’erta, in luoghi ove non era traccia di sentiero, si fermarono, e bendaron gli occhi ad ambedue.

La paura avea fatto trovar la voce al podestà, che si raccomandava piangendo come un bambino; e gli assassini se ne divertivano e lo lasciavano fare.

Ma D. Michele, che a quella pausa pensò al peggio, disse fra denti: — Per Dio ci siamo! Volle provare d’entrar in trattative per uscir dalle mani; ma alla prima parola gli fu chiusa la bocca con un pugno che gli cacciò due denti in gola. Non potendo nè vedere, nè parlare, stava ad orecchie tese. Sentì i