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capitolo ii. | 27 |
ma mi cadde sul capo quella del re che m’aperse l’elmo e rimasi per morto un pezzo. Quando mi riscossi e mi potetti alzar da terra, mi trovai il povero Zamoreno steso morto accanto.»
I casi del cavallo di Segredo erano stati uditi con affetto da tutta la tavola, ed il vecchio soldato al fine del suo racconto non avea potuto a meno di non mostrare sul viso solcato dall’età e dai travagli, che la memoria dell’antico compagno gli durava molto viva nel cuore. Qui ebbe vergogna di farlo troppo scorgere, e si versò da bere per distrarre gli sguardi che ancora lo fissavano.
Jacques de Guignes che, non meno degli altri prigioni, era andato riprendendo animo a misura che s’era pieno lo stomaco, udita la storia di Zamoreno, cominciò:
— Chez-nous, messer cavaliere, questo non vi sarebbe accaduto tanto facilmente (quantunque è pur troppo vero che les bonnes coutumes de chevalerie si vanno perdendo ogni giorno). Pure un uomo d’arme si crederebbe disonorato se ad armi e a numero pari la sua spada cadesse sul cavallo del nemico. Ma dai Mori, come tutti sanno, non si può aspettare questa cortesia.
— Eppure, — disse Inigo, rispondendo ad una proposta che non gli era diretta, — si potrebbe provare che non è usanza solamente de’ Mori l’ammazzar cavalli. Lo sanno le pianure sotto Benevento, e lo seppe il povero Manfredi. E Carlo d’Angiò che ne diede l’ordine, non era più moro di voi e di me.
La stoccata era diritta, ed il Francese si scontorse sulla sedia.
— Questo si dice; forse sarà vero: ma Charles d’Anjou combatteva per un reame, e poi aveva a fare con uno scomunicato nemico della Chiesa.
— Ed egli non lo era della roba altrui: — interruppe Inigo con un sorriso amaro.