Pagina:D'Azeglio - Ettore Fieramosca o la disfida di Barletta, 1856.djvu/42

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capitolo iii. 39

larsi presso il viso l’ultimo batter d’ala della nottola mattutina nel principiar del caldo sulle belle coste del regno, non sa sin dove giunga la divina bellezza delle cose create.

Lungo il muro del terrazzo cresceva una palma. Seduto sul parapetto, le spalle appoggiate al tronco, e colle mani intrecciate reggendosi un ginocchio, il nostro giovine soldato stava godendo momenti di quiete, e l’aria pura che precede l’aurora.

La natura gli aveva concesso il prezioso dono d’esser per indole propria spinto a quanto v’ha di bello, di buono e di grande. Un solo difetto si poteva apporgli, se difetto si può chiamare, una soverchia bontà. Ma nudrito da’ primi anni fra l’armi presto conobbe gli uomini e le cose; la sua mente retta nel giudicare imparò qual limite si debba porre alla bontà stessa onde non degeneri in debolezza, e la rigidità che acquista sovente chi si trova fra continui pericoli, in un cuore quale era il suo, divenne una giusta fermezza, degna e preziosa dote di un petto virile.

Il padre di Fieramosca, gentiluomo capuano della scuola di Braccio da Montone, invecchiato nelle guerre che lacerarono l’Italia durante il secolo xv, non potè dare ad Ettore altro che una spada; e questi da giovanetto credette il mestier dell’arme il solo degno di sè, nè potè per molti anni aver pensieri superiori ai tempi in cui viveva, nei quali la forza dell’armi non s’impegnava che ad accrescere la riputazione e l’avere.

Ma crebbe il senno col crescer dell’età; e ne’ brevi momenti che si restava dal guerreggiare, invece di spender l’ozio in cacce, in giostre ed in altri giovanili piaceri, ebbe cari gli studi e le lettere; e conosciuti gli antichi autori, e gli onorati fatti di coloro che avevano sparso il sangue in pro della patria