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sperare volesse indursi a rimanere meco; e che a mio, e forse a suo malgrado, pure avrebbe voluto tornarsene col marito, appena le sue forze gliel’avessero concesso. Onde spedii velocemente a Roma Franciotto ad informarsi in che termini si stesse colà, e come vi fosse intesa la cosa.

Tornò verso sera recando la nuova che il Valentino s’era levato colle sue genti, ed avviato verso Romagna, ed aveva menato con sè Grajano e la compagnia. Non si sapeva quale impresa fosse per fare dapprima.

Ne feci motto alla Ginevra, la quale, udito da me alla fine quanto le fosse occorso, ondeggiava in varii pensieri senza sapere a che risolversi. Con molte parole le mostrai che in modo nessuno le conveniva tornarsene a Roma, ove il Valentino avrebbe con facilità potuto trovarla, ed emendare il primo colpo fallito: che suo marito avvolto nelle faccende della guerra, e tutto cosa del duca, difficilmente avrebbe potuto, anche volendo, servirle di difensore: e poi come, dove rintracciarlo? La pregavo, con affetto grandissimo non volesse andar contro ad una quasi divina disposizione, che per istrade tanto fuori dell’ordinario ci aveva riuniti, togliendola da una condizione piena d’insidie e di pericoli: pensasse che levandoci di qui, potevamo per la supposta morte condurci senza sospetti in parte ove libera e tranquilla potrebbe almeno aspettare e vedere dove andasse a parare la sua fortuna e quella di suo marito; ed alzando la fede, le dissi queste formate parole:

— Ginevra! io giuro alla Vergine SS. che sarai meco, non altrimenti che se fossi con tua madre. Franciotto ancor esso aiutava; tantochè la buona Ginevra alla fine con molti sospiri, nè potendo affatto vincere un cotal rimorso che la rodeva, mi disse: — Ettore, tu sarai mia guida: a te sta il mostrare che il cielo e non altri mi t’ha mandato.