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1. la meccanica: archita ed archimede 109

Essa è formata da un cilindro posto obliquamente e con l’estremità inferiore immersa nell’acqua. All’interno vi è una specie di tubo avvolto a spirale attorno all’asse del cilindro. Ruotando il cilindro per il verso giusto con una manovella applicata all’estremità superiore, l’acqua sale fino a traboccare in qualche recipiente apposito.

Plutarco dedica alcune pagine alla figura straordinaria dello scienziato siracusano.

“Archimede possedette uno spirito così elevato, un’anima così profonda e un patrimonio così grande di cognizioni scientifiche, che non volle lasciare per iscritto nulla su quelle cose [cioè sulle macchine inventate e usate per combattere i Romani], cui pure doveva un nome e la fama di una facoltà comprensiva non umana, ma pressoché divina. Persuaso che l’attività di uno che costruisce delle macchine, come di qualsiasi altra arte che si rivolge a un’utilità immediata, è ignobile e grossolana, rivolse le sue cure più ambiziose soltanto a studi la cui bellezza ed astrazione non sono contaminate da esigenze di ordine materiale. E i suoi studi non ammettono confronti con nessun altro” (12c).

Apprendiamo da Plutarco che Archimede viene incoraggiato a costruire macchine e congegni da Gerone, re della città e suo parente. In effetti, a seguito degli studi sulla leva, Archimede aveva affermato “che si poteva con una certa forza sollevare un certo peso” (12d) e che avrebbe potuto spostare anche la Terra, in date condizioni. Il re si limita a chiedere una dimostrazione pratica. Archimede fa tirare in secco un grosso mercantile a tre alberi, il che richiede grande fatica, quindi ordina che sia caricato normalmente e che vi salgano molti uomini; infine “si sedette lontano e senza nessuno sforzo, muovendo tranquillamente con una mano un sistema di carrucole, lo fece avvicinare a sé dolcemente e senza sussulti, come se volasse sulle onde del mare” (12d).