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voci nel buio 139


Aperse il cassetto del tavolino. Non c’era che un biglietto di visita d’Elena, lacerato. Aveva, oltre al nome, poche parole di scritto, cancellate, illeggibili.

La contessa lo raccolse con l’istinto che la occulta ragione della condotta d’Elena, non potuta trovare da lei in nessun modo, fosse appunto lì sotto quel buio nascondiglio di cancellature onde usciva una voce indistinta.

Verso le quattro, cavalli e ruote entrarono fragorosamente nel portico. La contessa corse fuori mentre Cortis saltava dal calesse a terra. Gli porse ambedue le mani. Quanto gli era grata! Con quel caldo!

«Povere bestie!» brontolò il vetturale.

«Dunque?» disse Cortis ansioso. «Sola?

«Altro che sola, figlio caro!

Appena furono in casa la contessa non mancò di mettersi a piangere. Cortis non sapeva che pensare.

«Insomma, zia? Cosa è stato?» diss’egli.

La zia indugiò un poco a rispondere. Intanto due o tre colpi di campanello suonarono in alto.

«Niente» diss’ella, «non sarà niente; saranno sciocchezze mie, ma intanto io ho stretto il cuore, Daniele, ch’è una cosa grande, e non vedevo l’ora di averti qua, di parlarti, di sentir cosa dici. Ti ricordi quella sera del temporale che tu venivi dalla camera di Lao e mi hai incontrata qui in sala? Ti ricordi che avevo le lagrime agli occhi? Bene.

Ella cominciò a raccontar cose che Cortis sapeva già in gran parte: gl’imbarazzi di danaro di suo genero, le sue pretese, le tante questioni suscitatene in famiglia, l’inflessibilità di Lao, il martirio proprio.

«Signora» disse la cameriera entrando, «il conte ha udito la carrozza e ha voluto sapere chi fosse arrivato, e adesso dice che aspetta il signor Daniele.