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approfittando del suo permesso, mi proponevo di condurre Elena, per qualche tempo, nel Veneto, ma che ci saremmo trattenute alcuni giorni a Roma per stare un po’ con lui. Qui aggiungevo delle parole affettuose sui suoi dispiaceri, sulla nostra buona volontà di aiutarlo in tutti i modi possibili. Elena poi aggiunse alla mia lettera un biglietto in cui gli diceva che veniva a Roma con l’intento di essergli utile anche contro la sua volontà stessa, occorrendo; e gl’indicava il giorno e l’ora del nostro arrivo, l’albergo dove saremmo scese. Non risponde, ma passi; forse non c’era tempo, se vuoi. Si vien qua, si spera di trovarlo alla stazione. Euh! nessuno. Ne domandiamo a Clenezzi, e Clenezzi, rosso come un Bacco, c’impasticcia che l’ha veduto anche stamattina, che sta benissimo, che sarà andato qua, che sarà andato là. Non c’è stato il tempo di spiegarsi, ma si capisce che anche le nostre lettere non hanno fatto niente. Adesso dimmi tu. Quest’affare della scadenza è ben combinato?

«Sì, sì, combinato» rispose Cortis in fretta, non volendo turbare inutilmente le signore: perchè, se le cose non erano in quel momento composte, certo dovevano comporsi l’indomani a mezzogiorno.

«E lui» riprese la contessa «lo ha saputo della proroga?

«Lo ha saputo.

«E cosa ne ha detto?

«Io non gli ho parlato mai, ma so da Clenezzi che se ne mostrò contento e che lo ringraziò molto.

«Bene, e ora dimmi, caro te: cosa abbiamo da fare? Lui si capisce che non intende lasciarsi vedere. Dobbiamo scrivergli? Dobbiamo andarlo a cercare?