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volta la figura, lo sguardo d’Elena gli fugavano ogni altra visione; ma poi quell’aula scura, quei volti oscuri e marmorei, quel quadrante, quell’inesorabile lancetta tornavano. E si udiva parlare, udiva il cicaleccio indifferente dei colleghi, poi le interruzioni, i richiami, le ingiurie. Le sentiva veramente come schiaffi sul viso; un fiume di collera gli veniva alla bocca; egli rispondeva a destra e a sinistra con l’invettiva e il sarcasmo, solo contro tutti.

Parole, attitudini, gli tempestavano nella fantasia con rapidità crescente. E camminava camminava, con i denti serrati, con le pugna strette, quando in piazza de’ Fenili traballò preso da un capogiro, dovette aggrapparsi al parapetto verso il Foro, aspettare, ansando, che passasse. Quando le imminenti colonne spettrali di Castore e Polluce ristettero di girargli attorno con gli altri grandi cadaveri del Foro, tutti grigi di luna velata, rimase a guardare, quasi inconsapevole, i tre fusti potenti, il colossale mozzicone d’architrave fermo sotto i nuvoloni bianchi che veleggiavano all’Esquilino.

La pace dei secoli morti gli entrò a poco a poco nel cuore. Riprese quindi adagio il suo cammino pensando, attonito, a questa cosa nuova, a questo girar vertiginoso della vista, cui neppure una volontà gagliarda come la sua poteva arrestare. Calma, calma, ci voleva; anche per l’indomani. Non immaginò più niente, non ascoltò che il proprio passo nella solitudine.

A un tratto si trovò sul viso il Colosseo enorme, nero fino alle nuvole. I piccoli fanali non rompean l’ombre a due passi. S’intravvedeva appena, in fondo all’entrata, l’arena chiara. Cortis si cacciò in quel