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Don Biracchio 105

così avrebbe seguitato a parlar fino a sera, intercalando ogni tanto alle bazzecole una sentenza di buona morale, un giudizio sensato sulle cose del comune, o una riflessione o un motto che indicavano buon senso e finezza di spirito; tutto come accompagnato da un riso interno continuo, che si comunicava agli uditori, senza passar pel suo viso. Il delegato gli diede un tocco di qualcuna delle sue prodezze di bocca, per farlo dire; ma egli sviò il discorso, per suggezione del nuovo venuto. Allora gli domandò dei suoi alunni.

— Ah! non mi parli di quei mascalzoni! — rispose. — Ne fanno alla palla di me. Son troppo minchione per fare il maestro. — E raccontò le loro ultime gesta, sull’uscio. — Si figuri, la settimana passata, durante la lezione, comincia a domandarmi uno d’andar fuori, per un bisogno, poi un altro, e poi un altro; tutti volevano uscire. Domando: cos’è questo? Dicono: abbiamo fatto una scorpacciata di mele. Bene. Vanno fuori tutti, chi due, chi tre volte. Ci stavano un’eternità. Io ero senza sospetto. Ma alla fin della lezione me li vedo tutti rossi di fuoco. Non n’era uscito uno, capisce? Si fermavan tutti nella stanza di là, avevan sturato la botte, mi succhiavano il vino con una canna, per turno. Ma delle fiancate da brentatori! Sei litri abbondanti me n’hanno ingoiato, quei cani.

E rimase serio tra le risate degli altri due.

— E non li ha castigati? — domandò il delegato.

— Ma cosa vuol castigare, Dio benedetto, se eran tutti briachi!

E di nuovo lasciò ridere gli altri. Aveva un giornale in mano. Il delegato ne guardò il titolo.

— Come! — gli domandò. — Non era abbonato all’Eco?

— Ero — rispose il prete, con accento di disgusto; — ma l’ho lasciato perchè faceva contro all’Italia.

E detto: a rivederci, rientrò nel suo romitorio, lasciando il maestro maravigliato dell’accento sincero e fermo col quale aveva detto l’ultime parole.

A una trentina di passi dalla casa, il delegato si voltò indietro, e gridò un’altra volta — Don Biraaaacchio!

Quegli si affacciò al finestrino.