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La vita del villaggio 113

si sentiva più nulla: tutte le porte e le finestre rimanevan chiuse o socchiuse, e pareva che non solo nel villaggio nessuno dovesse più muovere, ma nemmeno pensare, e non vi fosse più altro di vivente che le mosche. In quella quiete, di cui ogni più leggiera interruzione faceva il senso d’un grande strepito, aveva preso anch’egli il vezzo di correre alla finestra, spinto da una curiosità fanciullesca, ogni volta che sentiva il rumore d’una carrozza, e di tender l’orecchio avidamente a ogni parola che udisse sonar nella strada. Anch’egli aveva imparato a conoscer l’ora delle abitudini di certe persone, che eran come lancette d’orologio; e dal suo tavolino riconosceva il picchio del bastone del sindaco sul ciottolato, il tacco frettoloso della moglie del pretore, i colpi di tosse baritonale dell’organista, il passo dei carabinieri, e altri piccoli rumori che, in quei dati momenti, lo riconducevano sempre agli stessi pensieri. Due o tre risate grasse che sentiva fra le quattro e mezzo e le cinque dal caffè vicino, sapeva che erano dell’esattore, il quale si soffermava lì ogni giorno a raccontare le balordaggini della sua serva montanara. Gli pareva di sentire a ore fisse persino il raglio d’un somaro che sonava a quando a quando da un capo all’altro del paese, come lo sbadiglio formidabile d’un gigante annoiato. Nè s’annoiava meno stando in compagnia, poichè trovava nella vita del pensiero la stessa quiete, la stessa monotonia che nella fisica. Erano dialoghi interminabili sulla bontà comparata delle acque di due pozzi, descrizioni d’un’ora che faceva l’uno d’un nuovo sistema di purgatorio fatto fare nel suo cortile, l’altro del modo come s’era sbarazzata la casa dei topi, o discussioni minute intorno a una recente modificazione d’una legge d’imposta, troncate la sera e riattaccate la mattina dopo, portandovi ogni giorno ciascun disputante un nuovo argomento, a cui l’avversario cercava poi nuove obbiezioni quand’era solo. Arrivava a tal segno l’inerzia intellettuale in alcuni, che andando a prendere la mattina quell’unica Gazzetta da cui avevan notizie del mondo, se la ficcavano in tasca, e non la leggevano che la sera. Alcuni anche non aprivano nemmeno quella, e si facevan dare a voce le notizie dai conoscenti. C’era un consigliere che leggeva soltanto la “temperatura

Il romanzo d’un maestro. — I. 8