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292 l’esercito italiano

zioso. A tale si trovaron ridotte le popolazioni di molte provincie della Sicilia e del basso Napoletano, e fors’anco il quadro ch’io n’ho fatto non ritrae che assai pallidamente i terribili colori della verità.

Ma il sentimento doloroso che ci si desta in cuore alla memoria di quei giorni funesti, più che dalla notizia degl’immensi danni che il colèra produsse, vien forse dal pensare come la parte maggiore di cedesti danni sia derivata dall’ignoranza quasi selvaggia dei volghi, e in generale dalla pochezza d’animo dei cittadini di tutte le classi. L’effetto più sconsolante, quantunque non inutile, di codesta sventura del colèra, è forse stato quello di averci mostrato che nella via della civiltà siamo assai più addietro che non si soglia pensare, e che il cammino che resta a farsi è assai più lungo che non paresse dapprima, e che bisogna procedere più solleciti e più risoluti. Sarebbe, in vero, assai difficile il dimostrare che in occasioni consimili di tempi assai meno civili dei nostri la forsennatezza volgare sia andata più oltre e abbia dato di sè più deplorabili prove, e che, nella generalità del popolo, oggi più che allora, dinanzi alle sventure e ai pericoli comuni la ragione l’abbia avuta vinta sull’istinto, la carità sull’egoismo, il dovere sulla paura.

Ma che faceva l’esercito?

Il disordine delle amministrazioni e lo sconvolgimento e la paura generale avevano spirato audacia ai malandrini e ai briganti, e dato occasione che ne sorgessero dei nuovi, e gli uni e gli altri percorrevano le città e le campagne commettendo ogni maniera di furti e di violenze. La truppa, che non poteva cessare di dar la caccia a costoro, per quanto l’opera sua fosse indispensabile altrove, si trovava stretta così da mille obblighi diversi, gli uni più degli altri pericolosi e faticosi. La forza numerica dei corpi, che già era scarsa di fronte