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Ci rimettemmo in cammino e in capo a un’ora circa vedemmo biancheggiare all’orizzonte le tende dell’accampamento.

Un drappello di cavalieri, sbucati non so di dove, ci vennero incontro, di grande carriera, gridando e sparando i loro fucili; a dieci passi da noi, si fermarono; il capo strinse la mano all’ambasciatore; poi si unirono alla scorta. Erano cavalieri del luogo dove sorgeva il nostro accampamento, soldati d’una specie di landwehr, che forma la parte più numerosa dell’esercito marocchino (se il complesso delle forze militari del Marocco si può chiamare esercito), ed è composta di tutti gli uomini atti alle armi dai sedici ai sessantanni. Alcuni avevano il turbante, altri un fazzoletto rosso annodato intorno al capo; tutti il caffettano bianco.

Quando arrivammo alla tappa, si alzavano le ultime tende.

L’accampamento era posto sopra un terreno arido e ondulato; da una parte, lontano, si vedeva una catena di monti azzurri; dall’altra, una catena di colline verdognole. A mezzo miglio dalle tende c’erano due gruppi di capanne di stoppia, mezzo nascoste dai fichi d’India.

Ci radunammo tutti sotto una tenda.

Appena eravamo seduti, arrivò correndo un