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versava l’acqua fredda sulla schiena all’ambasciatore a quando ci passava accanto di galoppo, inchiodato sul suo cavallo castagno, presentava sempre una figura bella, elegante ed ardita. I pittori non si stancavan mai di guardarlo. Portava un caffettano scarlatto e i calzoncini azzurri: si riconosceva alla prima da un’estremità all’altra della carovana. Nell’accampamento non si sentiva gridare che il suo nome. Correva di tenda in tenda, scherzava con noi, urlava coi servi, dava e riceveva ordini, si bisticciava, montava in collera, prorompeva in risa; quand’era in collera pareva un selvaggio, quando rideva pareva un bambino. In ogni dieci parole che dicesse, c’entrava el señor ministro. Il signor ministro, per lui, veniva subito dopo Allà e il suo profeta. Dieci fucili appuntati contro il suo petto non l’avrebbero fatto impallidire; un rimprovero non meritato dell’Ambasciatore lo faceva piangere. Aveva venticinque anni.

Finito ch’ebbe di brontolare, venne vicino a me ad aprire una cassa. Mentre si chinava gli cadde il fez e gli vidi sulla testa rasa una larga macchia di sangue. Gli domandai che cos’era. Mi rispose che s’era ferito con uno dei grossi pani di zucchero della mona. — L’ho gettato in aria, — mi disse colla più gran serietà, — e l’ho ricevuto sulla testa. —