inferocendo di giorno in giorno, fino alla fine del viaggio. Appena sdraiati in terra, eravamo assaliti, punti, solleticati da cento parti, come se ci fossimo buttati sopra un letto di ortiche. Non erano che bruchi, ragni, formiconi, tafani, cavallette; ma grossi, petulanti e ostinati in una maniera inaudita. Il Comandante, che per rallegrare la brigata aveva preso il partito di esagerare favolosamente i pericoli, e lo faceva con un garbo ammirabile, ci assicurava che quelli erano animalini microscopici appetto agli insettacci che avremmo trovati avvicinandoci a Fez e innoltrandoci nell’estate; e che di noi non sarebbe tornato in Italia che qualche resto riconoscibile a stento dai parenti più stretti e dagli amici più intimi. Il cuoco udendo quelle parole, fece un sorriso forzato e diventò pensieroso. Vicino a noi c’era una tela di ragno smisurata, distesa sopra alcuni cespugli, come un lenzuolo messo ad asciugare. Mi pare ancor di sentire il comandante esclamare: — Ma in questo paese tutto è gigantesco, formidabile, miracoloso! — Ed osservava con ragione che il ragno che aveva fatto quella tela doveva essere almeno grosso quanto un cavallo. Ma non riuscimmo a scoprirlo. I soli che dormissero erano gli arabi, coricati la maggior parte al sole, con una processione di bestiaccie addosso. I due pittori disegnavano, tormentati da