Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
zeguta | 235 |
In fondo alla valle s’incontrò un’altra scorta del territorio delle colonie militari, la quale diede il cambio alla prima.
Erano cento cavalieri, tra i quali dei vecchissimi e dei giovanissimi, neri e capelluti; alcuni su cavalli stupendi, bardati con insolita pompa. Il caid, Abù-ben-Gileli, era un vecchio tarchiato, d’aspetto severo, di modi recisi, del quale e dei suoi soldati, si sarebbe potuto dire quello che diceva Don Abbondio dell’Innominato e dei bravi: — Per tenere a segno quelle faccie lì, non ci vuol meno di questa faccia qui; lo capisco anch’io. — Senza un riguardo al mondo per il grano e per l’orzo maturo ch’era dai due lati della strada, i soldati lanciarono i cavalli al galoppo di qua e di là, e cominciarono le solite cariche a due, a cinque, a dieci insieme, buttando i fucili in aria, rovesciandosi in dietro, a destra, a sinistra, contorcendosi sulla sella in mille maniere e urlando come anime dannate. Uno, fra gli altri, faceva il molinello col fucile con una rapidità che quasi l’arma non si vedeva. Un altro, passando, gridò con voce tonante: — Ecco il fulmine! — Un terzo, essendogli deviato il cavallo, mancò un pelo che non c’investisse e ci buttasse tutti in terra a gambe levate.