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tutte le bocche uscì un grido prolungato e tonante: — Dio protegga il nostro Signore!

Il Sultano s’avanzava verso di noi.

Era a cavallo, seguito da una turba di cortigiani a piedi, uno dei quali sorreggeva sopra il suo capo un enorme parasole.

Arrivato a pochi passi dall’Ambasciatore, si fermò; una parte del suo seguito chiuse il quadrato; gli altri gli rimasero intorno.

Il cerimoniere del bastone gridò ad alta voce: — L’Ambasciatore d’Italia!

L’Ambasciatore, accompagnato dall’interprete, col capo scoperto, s’avvicinò al Sultano.

Questo gli disse in arabo: — Benvenuto! Benvenuto! Benvenuto! — Poi gli domandò se aveva fatto buon viaggio, e s’era stato soddisfatto del servizio della scorta e del ricevimento dei Governatori.

Ma di tutto questo noi non udimmo nulla. Eravamo affascinati. Quel Sultano, che l’immaginazione ci aveva rappresentato sotto l’aspetto d’un despota selvaggio e crudele, era il più bello e più simpatico giovane che possa brillare alla fantasia d’un’odalisca. È alto di statura e snello, ha gli occhi grandi e soavi, un bel naso aquilino, il viso bruno d’un ovale perfetto, contornato d’una corta barba nera; una fisonomia nobilissima e piena di dolce mestizia. Una cappa bianca come la neve gli scendeva dalla testa