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fesa. Queste povere bestie erano quasi tutte accovacciate, sfinite più che dalle fatiche del viaggio, dall’insufficienza del nutrimento, una parte del quale, forse, era stata secondo l’uso trasformata in metallo dai conducenti. V’eran là alcuni soldati della scorta. Si avvicinarono e cominciarono a parlare, ingegnandosi di farci capire coi gesti che il viaggio era stato faticoso, che avevano patito un gran caldo e una gran sete, ma che grazie ad Allà erano arrivati sani e salvi. Ve n’erano dei neri e dei mulatti, tutti ravvolti nella cappa bianca, uomini alti ed ossuti, faccie ardite, denti ferini, occhiacci che facevano quasi pensare che non sarebbe stata superflua una seconda scorta, schierata fra noi e loro, per tutti i casi possibili. Mentre i miei compagni gesticolavano, io cercai fra le mule quella che aveva negli occhi una più dolce espressione di generosità e di mansuetudine; era una mula bianca colla groppa rabescata; decisi di affidare ad essa la mia vita, e d’allora fino al ritorno, rimasero legate a quella sella tutte le speranze della letteratura italiana nel Marocco.
Di là andammo al Soc di barra, dov’erano state piantate le tende principali. Fu un gran piacere per noi il vedere quelle casette di tela dove dovevamo dormire trenta notti in mezzo a solitudini sconosciute, e vedere e sentire tante cose mirabili, e preparare chi una carta geogra-