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156 il capitano ugo foscolo.

contro l’umanità e la prudenza;» anche allora. — Gli toglievano i migliori sergenti; scriveva ai corpi, e i corpi non gli davan retta; voleva chiudere i conti e non gli spedivan le carte; ed egli s’indispettiva, povero Foscolo, e si rodeva, e si sfogava col suo generale: «Sono assai male trattato; lasciatemi almeno il foriere Gilli, unico capace ad aiutarmi nella noiosa, imbrogliata e per me nuova contabilità di tre differenti Depositi.»

Oh povero autore dei Sepolcri!

E a questo s’aggiungevano altri guai. Il vivandiere aveva tre figliuole; queste tre figliuole non adornavan l’amor d’un velo candidissimo, punto punto; ne seguivano gelosie tra i sergenti, risse, duelli; e il povero Foscolo era costretto a consegnare i soldati in quartiere, ad arrestare, ad inquisire, a stendere relazioni su relazioni. I sergenti rubavano sui fogli di prestito; un sergente-maggiore gli scappava, un soldato portava via le catene dai carri d’artiglieria, un altro veniva alle mani coi cittadini, e lì richiami, proteste, scandali. E intanto sopraggiungevano in folla i prigionieri inglesi, e bisognava rafforzare il servizio di guardia, e il numero dei soldati non bastava, e i soldati si lamentavano.

«Ah! mio generale — scriveva allora il Foscolo disperato — confesso che la forza e la pazienza mi cominciano a mancare.»

L’anima del Foscolo, disse giustamente un critico, era lirica; lirica nelle lettere famigliari, lirica negli articoli di giornale, lirica nelle prefazioni, lirica persino nelle postille di commentatore. È vero, e queste sue lettere sono liriche anch’esse, piene di passione, di vigore, di vita.

«Vi raccomando mio fratello — scriveva al vice-presidente della Repubblica italiana. — Egli è colto, coraggioso e bello.» Curioso quel bello, messo lì in fondo a una supplica con quella franchezza; chi ce lo mettesse ora!