Pagina:De Amicis - Spagna, Barbera, Firenze, 1873.djvu/107

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burgos. 101


mattina stessa l'Imperatore del Brasile, e doveva ripartire la notte per Madrid. Nella sala dove io desinai, insieme ad alcuni spagnuoli, ai quali feci conversazione fino all'ora della partenza, desinavano tutti i maggiordomi, cameriere, servitori, staffieri e che so io, di sua maestà imperiale, seduti intorno ad una gran tavola, che occupavano tutta. In vita mia non ho visto un più strano gruppo di creature umane. C'eran dei visi bianchi, dei visi neri, dei visi gialli, dei visi color di rame, con certi occhi e nasi e bocche, da non trovarne gli uguali in tutta la raccolta del Pasquino del Teja. E ognuno parlava una lingua diversa imbastardita: chi l'inglese, chi il portoghese, chi il francese, chi lo spagnuolo; qualcuno una mescolanza non mai più udita di tutte e quattro, aggiuntovi parole, suoni e cadenze di non so che dialetti; e si capivano, e discorrevano tutti insieme con confusione tale da far credere che parlassero una sola arcana orrenda lingua di qualche terra selvaggia ignorata dal mondo.

Prima di lasciare la Vecchia Castiglia, la culla della monarchia spagnuola, avrei voluto veder Soria, fabbricata sulle rovine dell'antica Numancia; Segovia, dall'immenso acquedotto romano; Sant'Idelfonso, il delizioso giardino di Filippo V; Avila, la città natale di Santa Teresa; ma fatte in fretta e in furia, prima di prendere il biglietto per Valladolid, le quattro prime operazioni dell'aritmetica, dissi a me stesso che in quelle quattro città non ci potevano essere grandi cose da vedere, che le Guide