Pagina:De Amicis - Spagna, Barbera, Firenze, 1873.djvu/27

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barcellona. 21

que o sei caballeros, colla capa sulle spalle (un mantello di panno oscuro, munito d’un’ampia pellegrina, che si porta in vece del nostro pastrano); e in ogni crocchio si giuoca al domino. È il giuoco più in voga presso gli Spagnuoli. Nei caffè, dall’imbrunire sino a mezzanotte, si sente un rumore fitto, continuo, assordante, come il rumor della grandine, di migliaia di tessere volte e rivolte da centinaia di mani, che quasi bisogna alzare la voce per farsi sentire da chi vi è accanto. La bevanda più usuale è il cioccolatte, squisitissimo in Spagna, portato per lo più in piccole chicchere, denso come conserva di ginepro e caldo da scorticare la gola. Una di queste tazzine, con una goccia di latte, e una pasta particolare, che si chiama bollo (boglio), morbidissima, è una colezione da Lucullo. Fra un bollo e l’altro, feci i miei studii sul carattere catalano, discorrendo con tutti i Don Fulanos (nome sacramentato in Ispagna come il Tizio fra noi) che ebbero la bontà di non pigliarmi per una spia mandata da Madrid a fiutar l’aria della Catalogna.


Gli animi, in quei giorni, erano molto eccitati dalla politica. A me occorse parecchie volte, parlando innocentissimamente d’un giornale, d’un personaggio, d’un fatto qualsiasi col caballero che m’accompagnava, o nel caffè, o in una bottega, o al teatro; mi occorse, dico, di sentirmi toccare la punta del piede e mormorare nell’orecchio: — Badi, questo signore alla sua destra è un Carlista. — Zitto, quello