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siviglia. 357


"Appunto," egli mi rispose; "la bottega del barbiere di Siviglia; ma badi, se ne parlerà in Italia, non giuri, perchè le tradizioni sono spesso traditrici, e io non vorrei addossarmi la responsabilità d'una affermazione storica di tanta importanza."

In quel momento il mercante s'affacciò alla porta della bottega, e indovinando il perchè eravamo là, rise, e ci disse: — No está. — Figaro non c'è, e facendoci un grazioso saluto, si ritrasse.

Allora pregai il signor Gonzalo di farmi vedere un patio, uno di quegl'incantevoli patios, che, a guardarli dalla strada, mi facevan fantasticare tante delizie. "Voglio vederne almeno uno," gli dissi, "penetrare una volta in mezzo a quei misteri, toccar le pareti, assicurarmi che sono una cosa vera, e non una visione." — Il mio desiderio fu subito appagato. Entrammo nel patio d'un amico suo. Il signor Gonzalo disse al servitore lo scopo della visita, e rimanemmo soli. La casa non aveva che un piano. Il patio non era più spazioso d'una sala comune; ma tutto marmo e fiori, e uno schizzo d'acqua nel mezzo, e intorno quadri e statuette, e fra tetto e tetto una tenda che riparava dal sole. In un canto si vedeva un tavolino da lavoro, e qua e là seggiole e panchettine, sulle quali s'eran forse posati poco prima i piedi di qualche Andalusa che in quel momento ci osservava di fra le stecche d'una persiana. Io guardai minutamente ogni cosa, come avrei fatto in una casa abbandonata dalle fate; sedetti, chiusi gli occhi e immaginai d'essere il padrone; poi m'alzai,