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lascian vedere il fondo oscuro, sul quale le bianche colonnine spiccano come dinanzi all’imboccatura di una grotta. A ogni passo che si fa nel cortile, quella foresta di colonne par che si muova e si disordini per disporsi in un’altra maniera; dietro una colonna che pareva sola, ne saltan fuori due, tre, una fila; altre scompaiono, altre si stringono, altre si disgiungono; a guardar d’infondo a una delle sale, tutto appare mutato; gli archi della parte opposta, sembran lontanissimi; le colonne, spostate; i tempietti, d’un’altra forma; si vede a traverso i muri, si scopron nuovi archi e nuove colonnine, qui illuminati dal sole, là nell’ombra, lì rischiarati appena dal po’ di luce che passa pei fori degli stucchi, più lontano perduti quasi nel buio. È un continuo variare di prospetti, di lontananze, d’inganni, di misteri, di giuochi, che vi fa l’architettura e il sole, e la fantasia sovreccitata e bollente.

Che cosa doveva essere questo patio, — mi disse il Gongora, — quando i muri interni del portico erano luccicanti di musaici, i capitelli delle colonne scintillanti d’oro, i soffitti e le volte dipinti di mille colori, le porte chiuse da tende di seta, le nicchie piene di fiori, e sotto i tempietti e nelle sale correva l’acqua odorosa, e dalle nari dei leoni schizzavano dodici zampilli che ricascavan nella vasca, e l’aria era pregna dei più deliziosi profumi dell’Arabia!

Ci trattenemmo nel cortile più d’un’ora, che ci passò come un lampo; ed anch’io feci quello che fanno tutti in quel luogo, spagnuoli e stranieri, uo-