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diplomazia e congresso di parigi | 237 |
è vivo, anzi, il barone Saverio Fava, già ambasciatore negli Stati Uniti, è senatore del regno, ed è vigoroso di mente e di corpo. E quando nel giugno del 1860 il De Martino fu chiamato a Napoli, per assumere il ministero degli affari esteri, la legazione di Roma fu retta dal principe di Altomonte, che sposò una delle contesse Cini. Il Campodisola era stato trasferito a Berlino nel novembre del 1858, e vi restò, come segretario d’ambasciata, fino al maggio del 1860. In qualità di segretario accompagnò il marchese La Greca a Parigi, e vi rimase fino alla caduta dei Borboni, ottenendo negli ultimi tempi l’incarico di prendere in consegna la legazione dal marchese Antonini, richiamato, e reggerla fino all’arrivo del nuovo ministro, ch’era il Canofari. Ma le cose precipitarono; ed egli, dopo l’arresto del padre, nel 1861, tornò a Napoli, dove ebbe molta parte nell’amministrazione del municipio. Era uomo di valore, e si spense dopo il 1870. Il duca di San Martino di Moltalbo, al quale devo molte di queste informazioni, morì a Roma, tre anni or sono.
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Le mutazioni nella diplomazia sarda, fra incaricati di affari e ministri interini, furono frequentissime, dal 1851 al 1859. Dal marchese Ippolito Spinola, che fu il primo, dopo la restaurazione, al conte Della Minerva, che fu l’ultimo, si successero non meno di cinque rappresentanti. Benchè quei diplomatici s’imponessero il maggior riserbo, quasi studiando di non fiatare, i rapporti fra i due Stati non furono mai cordiali, e corsero più volte il pericolo di essere rotti. Sin dal primo ministero d’Azeglio erano cominciati i dissidi, con l’abolizione del foro ecclesiastico, essendo ministro di giustizia e culti il conte Siccardi, e si era proseguito col disegno di legge sul matrimonio civile. Dopo il connubio fra Cavour e Rattazzi, la politica ecclesiastica del Piemonte si accentuò sempre di più in senso anticlericale. All’abolizione del foro ecclesiastico, e al matrimonio civile seguì, nel 1855, il disegno, ancora più radicale, della soppressione delle comunità religiose. Ce n’era abbastanza per far montare in bizza il pontefice, il quale aveva scritto a Vittorio Emanuele quella memorabile lettera, datata da Castelgandolfo, il