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gendosi ai ferri delle finestre, ingombrando l’ingresso delle porte.
Dei vecchi mozziconi di statua, che una volta rappresentavano Giove o Mercurio, non erano oggi che un ammasso informe di frasche o di vilucchi, in cui il sasso nero giaceva morto e sepolto, e vedevi l’erba uscire fin dalle corrose ardesie del terrazzo, a far beate le lucertole.
L’interno era più squallido.
Tutte le vecchie suppellettili, i vasi, gli stemmi, i candelabri, i quadri preziosi avevano emigrato da un pezzo, non a pagare i debiti del padrone, ma a riempire qualche buco della vecchia nave che faceva acqua da tutte le parti. Erano molti anni che il silenzio e la miseria intristivano una casa dove quarant’anni prima aveva regnato il chiasso, il fasto e l’orgoglio d’una grande famiglia del reame.
Non parlo delle feste del principio del secolo e dei trionfi dell’altro secolo, quando i Santafusca comandavano nè più nè meno dei Borboni a Napoli.
In quei tempi i vecchi contadini avevano udito dire delle caccie rumorose e principesche del barone Nicola, che andava attorno sempre armato di pistolotto, e si raccontavano avventure tremende di rapimenti, di voluttà, di orgie, di delitti.
Che cosa era rimasto di tutta questa potenza? Nulla, anzi meno che nulla, perchè «u barone» Coriolano oggi valeva meno di un tronco di sta-