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tanto affezionando alla figura della morta nel leggerne la storia, la vedeva così nobile e pura, sentiva in ogni pagina di quelle confessioni una schiettezza così semplice, che il senso della reticenza ne restava naturalmente giustificato. «Ebbi paura di pensare. Non sono sincera. Non dico tutto...» Nel punto che scriveva quelle parole non pensava ella che il tradimento del marito al quale aveva portato tanto amore, il tradimento di chi aveva dubitato dell’amore di lei credendosene indegno, di chi aveva promesso dedicare tutta la vita a meritarlo, a serbarselo, fosse in lui una colpa grave, un immeritato castigo per lei? Non pensava ella che quell’uomo aveva mentito o che si era vantato d’una forza della quale mancava? Se turbatrici seduzioni eransi esercitate anche su lei e se ella aveva saputo domarle e disperderle, ella che a giudizio del mondo sarebbe stata più scusabile d’accoglierle, non doveva considerare severamente la debolezza di quell’uomo? Tutto il dolore che il disinganno, che la scienza del male fino a quel giorno insospettato destavano nell’animo della sposa si esprimeva con quella frase: «Ebbi paura di pensare...» e il Ferpierre, rileggendola, s’affermava nella sua spiegazione, riconosceva che l’imprevista soluzione era logica: illogico, o almeno troppo ligio al preconcetto era stato egli stesso nel prevederne una contraria.

Che il conte d’Arda, vissuto fino a quaranta-