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xii. 1820 - canzone al mai 115

già vissuto». Ma non bisogna prendere alla lettera queste e simili frasi, che ritornano spesso nella sua corrispondenza. Il cuore rimaneva giovine, e batteva ad ogni nuova impressione. Era nel suo petto una fonte inesausta d’amore e di poesia, che traboccava al minimo tocco della cortese natura. Quel lamentarsi continuo di non esser più buono a nulla era il sospiro di una vocazione che gli fuggiva dinanzi, ma di cui si sentiva ancora la forza al di dentro. In mezzo al suo abbattimento gli usciva dal petto commosso quel grido: — Sarò io mai qualche cosa di grande? — Nel suo segreto non si sentiva al di sotto de’ più grandi. La sventura gli poteva togliere la speranza, non il desiderio della gloria, e non la coscienza del suo valore. Perciò, non potendo studiare, faceva progetti e schizzi, poetava, meditava, pur dicendo di aver vissuto. La noia che sentiva in sì alto grado era il sentimento della sua esistenza vacua e insieme la coscienza di tante sue forze che rimanevano vane. Indi i continui abbattimenti e risorgimenti. La lotta ch’è nella sua poesia, era nella sua vita.

Il 17 dicembre 1819 scriveva a Giordani che non era destinato a veruna cosa; e chiama la sua anima «assiderata e abbrividita», e assicura di esser già vissuto. E il io gennaio del 1820 scrive una lettera al Mai con un giovanile entusiasmo. Mentiva allora, o mentisce adesso? Niente affatto. Sincero l’una e l’altra volta. Gl’ignoranti parlano de’ misteri dell’anima; ma l’anima non è un mistero se non a quelli che non la sanno esplorare. Erano queste contraddizioni naturalissime.

Monti, Giordani e Mai erano a Leopardi una triade, che gli rappresentava l’eccellenza nella coltura italiana. Seguiva il Mai passo a passo, e ciascuna sua scoperta aveva il suo riscontro nel giovane, che vi aggiungeva illustrazioni, commenti, emendazioni. In questi giorni si sparse in Europa il grido di una nuova scoperta anche più maravigliosa. Non si trattava di Frontone, o di Dionigi di Alicarnasso, o di altri minori. Si trattava nientemeno di Cicerone. Il Mai aveva ritrovata la sua opera De Republica, e l’andava pubblicando allora in Roma.

Il fatto parve una meraviglia «da risvegliare i più sonnacchiosi e deboli»; e anche il giovane, ancorché la sua salute fosse