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126 giacomo leopardi
È chiaro che Leopardi era in convalescenza, e se non poteva troppo affaticarsi, perché «la testa ricadeva nella debolezza passata», poteva, «lentamente», studiare e scrivere. Anche il suo animo era disacerbato. A forza di consuetudine il male divenne cronico. Acquistò quella filosofica tolleranza delle miserie altrui e delle sue, che si esprime col riso, e ch’egli chiama noncuranza. Pensava e rideva.

      Molte cose scrisse allora, ma tutte «informi», materia per opere, anzi che opere. Rimasero progetti. Tra gli altri era questo: una scrittura delle lingue, e specialmente «delle cinque che compongono la famiglia delle nostre lingue meridionali, greca, latina, italiana, francese e spagnuola». E questo rimase in mente, come il trattato sulla Condizione presente delle lettere italiane, del quale il Cugnoni ha pubblicato lo schizzo. Sono indicazioni generalissime, pur sufficienti a mostrare con quanta larghezza aveva concepito l’argomento. Lamenta la poca popolarità e la superficialità degli scrittori, onde nasce il difetto di buoni libri «educativi e scientifici»; l’imitazione del classico e dell’antico, buona in sé, ma dannosa «senza l’unione della filosofia colla letteratura, senza l’applicazione della maniera buona di scrivere a’ soggetti importanti, nazionali e del tempo, senza l’armonia delle belle cose e delle belle parole». Riconosce il polimento ricevuto oggi dalla poesia, lo sgombramento delle riempiture, de’ tanti ornati vani; ma nota a un tempo il decadimento della poesia veramente e totalmente originale e ardita. Osserva «la totale mancanza di vera prosa bella italiana, inaffettata, fluida, armoniosa, propria, ricca, efficace, da cavarsi da’ trecentisti, dagli altri scrittori italiani, da’ greci quanto a moltissime forme, da’ latini quanto a moltissime così forme come parole, che si possono ancora derivare nella nostra lingua, e adattarvele mollissimamente, arricchendola, oltremodo». Vuole che lo scrittore si adatti al gusto corrente, scrivendo libri nazionali e da contemporanei, come facevano gli antichi. Indica i campi quasi ancora intatti nella nostra letteratura, l’eloquenza italiana da crearsi, la lirica, la commedia da rifabbricarsi. Oggi queste sono opinioni ammesse; ma chi si conduce a que’ tempi, e ricorda il vacuo pu-