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epica, con un giro latino di periodo e di frase, che forma come il piedistallo dell’Eroe.

Sudato, e molle di fraterno sangue.
Bruto per l’atra notte in erma sede,
Fermo già di morir, gl’inesorandi
Numi e l’averno accusa,
E di feroci note
Invan la sonnolenta aura percote.

Appare nel fondo del quadro, tra lo scalpitare de’ barbari cavali e i gotici brandi, il fosco avvenire di Roma, che dà alla sconfitta dell’eroe proporzioni colossali, alle quali aggiunge rilievo il silenzio della notte, la solitudine del luogo e l’aura sonnolenta. L’armonia grave, la lunghezza e l’intreccio di un periodo unico, certe forme insuete, ti costringono a pensare e ti tengono sospeso e serio.

In mezzo a questa natura morta, solo vivo è Bruto. Il debole cuore dell’uomo fa a sua similitudine Natura e Dei, e se li foggia partecipi delle sue gioie e delle sue ambasce. Ciò che non è umano è morto. L’uomo pretende che gli Dei abbiano viscere, e la natura sia pietosa. L’indifferente nella natura, il marmoreo ne’ numi non può ammetterlo. Nella sua felicità vuole compagnia e ancora più nelle sue calamità. Appunto perché vuole sé centro dell’universo, vuole che l’universo sia il suo corteggio. Egli vive e tutto vive, ma intorno a lui e della vita sua.

Questo concetto della vita è il fondamento dell’arte. Quando Bruto nel suo infortunio si sente solo, re scoronato, se la piglia co’ marmorei numi e con la placida luna; e appunto perché se ne sdegna, quella sua ribellione è, in una forma negativa, l’affermazione di quel concetto:

Roma antica rovina,
Tu sí placida sei?...

Quella placidità della luna piglia per lui forma di nimicizia, quella indifferenza offende il suo orgoglio di uomo: