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xi. 1819 - gl’idillii 89

quel sentirsi giovane, disposto all’affetto, alla tenerezza, e parlare alla luna e farle le sue confidenze. Non è solo la ricordanza, è il modo della ricordanza.

Quella luna così fissata e in questa corrispondenza di affetto, non la dimentichi più! E quel giovane nella sua malinconia contemplativa ed espansiva che vive di memoria, e canta l’età del suo dolore, e si nutre di questa vita e ci si piace e ci s’intenerisce, è il fanciullo poetico, che porta già in fronte i segni di un pensiero nuovo, non ancora adulto, ancora in formazione.

Nella Sera del dì di festa la materia è la stessa, in tela più ampia. È un dato momento psicologico da cui scaturisce un dramma che si rappresenta nello spirito del poeta. Il concetto astratto si può ridurre in questa forma: la festa è passata, e tutto passa.

Il giovane, che non ha preso parte alla festa, la sera si affaccia a guardare un bel cielo stellato, e la luna, tranquilla sopra ai tetti e in mezzo agli orti, che rischiara i lontani monti.

In mezzo a questo chiarore tutto è silenzio, e dietro alle finestre tutto è oscuro. Questa scena lo ispira e gli fa venire la lacrima e la voce. Egli non è un’anima oziosa letteraria che si affissi con diletto a quella scena e s’indugi a descriverla. Sono poche linee, ma sicure e precise che ti danno immagine e impressione tutt’insieme. E l’impressione è questa, che ti mette dolcemente in moto l’immaginazione ed il cuore, e ti concede lo sfogo e ti dispone ai cari soliloquii di un’anima troppo piena.

— Saluto questo cielo cosí benigno in vista e l’antica natura che mi fece infelice:

                                        A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.

Il cielo è così bello ed io sono così infelice! Negli occhi miei non brilla se non la lacrima. —

La notte chiara e dolce, la queta luna, quella serenità di cielo appare agli infelici quasi una provocazione. Vorrebbero tutto il mondo fosse in pianto, come loro. Ma il nostro infelice